nei lutti c’è sempre quest’elemento d’orrore obliante, dove temi che a un punto pure la vividezza di ciò che t’è più caro declinerà con le funzioni che la percepiscono e contengono. a metà di questo novembre, dove il sole salta obliquo ad accaparrar bastioni a un inverno sempre più inarrestabile e il vento che s’incanala in giardino anzi che föhn, scirocco o meltemi ha solo il nome del frinire tra gli allori, anche se penso e immagino, escogito e presumo, oltre i ricordi di cervello e corpo dov’è Stella non lo so, e dopo una dozzina d’anni assieme, foto e richiami spuntano fuori a turbini e mulinelli da pertugi e congegni, gravidi d’aneddotico sussulto, e presto pure di dettagli di cui mi scoprirò transitoriamente smemore.
il dubbio se sia fossile o statua o monumento o epopea il gesto più consono per far sfidare il tempo a chi ne è stato inevitabilmente trascinato è irrisolvibile. ci si sospetta nello stesso vortice e l’unico cenno che sembra riuscire è la manina che saluta, appreso a un anno scarso e prima ancora del verbo che l’allude e poi via, nel gorgo, dove chissà se al balenar fugace del memento s’abbinerà afflitto ciangottìo o raggiante ode. o un più probabile silenzio.
anni fa un misconosciuto poeta triestino a ritornello d’una silloge mimeticamente testamentaria scriveva e riscriveva: avrai poche cose, ma quelle le avrai — che per anni sullo sfondo mi è sempre parso il punto, anche quando le cose sembravano davvero poche, ma poche poche, e farci uscire tutto più che gioco di prestigio era diventato da tempo opera d’una vita. ecco: magari non so dire ancora che vuol dire o come si chiama, ma è così che imparo a muovere la mano:
in realtà la piccola Stella il mare lo aveva sempre adorato, anche se la prima volta — passato solo qualche giorno dall’ingresso in un nuovo branco dopo i primi mesi di vita in un piccolo canile — a sbirciarlo oltre ponte dal rumoroso e terrificante traghetto non gli aveva prestato molto attenzione, e nella settimana seguente, visto che il capobranco, nudo e ribaldo sugli scogli di chissà che atollo, s’era ustionato tutto l’ustionabile, non lo aveva poi frequentato granché.
l’anno dopo, credo fosse un giorno bigio d’aprile o maggio, quando capì che tutta quell’acqua scrosciante e fragorosa e gravida di mille salmastri afrori era a un tiro di schioppo da casa — un viaggio brevissimo, in fondo, sul sedile posteriore, col muso lungo e sottile come una freccia tra i sedili a guardare avanti, sempre avanti — sciolta dal guinzaglio sembrava invasata da quanto correva e correva e non smetteva di correre, tanta di quella gioia in corpo che avrebbe fatto esplodere ogni cuore.
dopo aver osservato i suoi scimpanzé in delirio davanti alle cascate, Jane Goodall commentò che tali leggiadre messe in scena, in impianti neurali che dalle ghiandole in forzieri d’osso che ci portiamo in spalla granché non differiscono, sgorgavano da stupore e meraviglia, e visto che provavano quello, gli scimpanzé, potevano pur bene possedere germogli di spiritualità, poiché questa, in ultimo, e stando alla Jane, è nella sua definizione minima “stupore per qualcosa al di fuori di sé”.
e secondo me nel caso di Stella e il mare — o per dirla intera, di Stella e lo spazio tutto — il punto non era nemmeno lo spirito o lo stupore. la sua divinità tutelare era il fulmine e quello che gli vedevamo fare, quando correva inebriata a toccare ogni atomo dello spazio restituendo ai testimoni una striscia nera continua come la traccia d’un calligrafo che pur svaniva rapida e fantasma era solo straordinario, implausibile amore: un vortice ineluttabile tra manifestazioni distinte oltre condizioni iniziali, compatibilità probabili e comunicazioni possibili.
mentre mi ricapitava tra le mani la foto qualche giorno fa, lo sguardo saturo di lacrimoni, ho pensato che vivere un solo istante così, uno singolo, in un fottìo di anni, può voler dire solo che l’hai vinto tu il livello, che l’hai superato, e che il mostro che insistevano t’attendesse alla fine era solo ignoranza delle regole del gioco, torpore e non stupore, paura anzi che amore.
aveva ragione Camus, e per capirlo bastava soltanto aggiustare il tiro della traduzione, e Sisifo, anzi che semplicemente giulivo, lo si doveva immaginare raggiante: d’un raggiare inebriato, inebriante, così raggiante che il bagliore ti acceca e tutto diventa luce.