guardavo dietro e vedevo solo giungla
si riparte: a un punto, la pressione dei pensieri ruminanti confinati nel cranio come prigionieri deportati nei vagoni merci a notte verso meta ignota diventa troppa da sostenere, e fuor di forare l'osso coronale con uno stiletto, l'unico tentativo sensato di lenirla è spingere tutto giù verso le dita e picchiare sulle righe dell'alfabeto bruciando tendini sempre più contratti e irritati, finché i dolci vapori, profughi dall'antro d'aracnoide e dura madre, s'assestano in stringhe più o meno comprensibili sui fogli piegati ad aeroplanino e affidati al soffio imprevedibile del vento.
voci dal vortice è il mio nuovo aeroplanino, una missiva — come la definisco al suo principale attracco, sulla soglia di un maniero che potrebbe essere pieno di tesori inconcepibili e convergenze auspicabili quanto di zombi, muffa, vampiri e licantropi, astrusi malanni e belve inferocite — a cadenza irregolare, che raccoglie cogitazioni, appunti, indizi e inevitabili dirottamenti autobiografici su distorsione temporale, sistemi autodistruttivi, offuscamenti percettivi, vesti narrative e scorci esotici; è un'avventura di testo che parte, come si suole, da un primo inevadibile scenario e che, tramite una pazienza e una perseveranza che come specie forse andiamo smarrendo, conserva potenzialità, per il mittente e per il destinatario, di invitare a un ineludibile, ghermente movimento.
voglio ricordare: contribuivo alla rete il mio primo testo pubblico a cronologia inversa l'8 settembre 2003, in una sottocartella del sito dove presentavo agli avventori il progetto sonoro nel quale ero impegnato, e ho proseguito, in idiomi e postazioni differenti man mano che trascorrevano mesi e poi anni, a dare conto d'un distillato del mio cogito fallace a chiunque vi s'imbattesse. per quanto mi è rimasto di quel lasso impigliato alla memoria, il gioco era così ammaliante che non si riusciva a smettere di giocarlo: eppure, come tutti i giochi, aveva senso soltanto nelle mosse risolutive in grado di condurre all'ambito finale di partita. e così, il 9 dicembre 2008 premevo invio sulle scarne duecento parole che ancora non immaginavo avrebbero costituito il mio fugace, transitorio testamento. il sito è rimasto in piedi fino alla successiva scadenza del contratto di hosting, e quando è scomparso si è portato dietro, crionizzato, il corpus della narrativa esistenziale che vi avevo occultato, più o meno in bella vista, per cercare di non dimenticarlo mai più. ho passato poi qualche anno nascosto nei giardini murati di comunità private a recitare ruoli assurdi solo per vedere se mi riuscisse l'acrobazia, e poi sono scomparso anche da lì, pirotecnico, lasciandomi dietro solo fumo e miraggi, continuando comunque a scrivere, principalmente su carta, cose che non ho veduto opportuno condividere con nessuno.
i social silo — chiamiamoli come meritano di essere chiamati, visto che il termine network ha tutt’altra valenza, certo non quella di un imbuto che risucchia a buco nero il nostro potenziale contributo a cultura e costumi di specie, accessibile solo dall’interno di una tenebra allucinata mediata da carcerieri robotici — mi hanno sempre fatto senso: sulle prime sembravano la stessa rottura di palle di myspace, dove il gioco di accumulare contatti raggiungeva rapidamente la somma zero di sfumarsi nella medesima moltitudine, senza nemmeno più la libertà di scegliersi la propria orrifica carta da parati e musica di sottofondo, e hanno poi introdotto nel contesto una serie di consuetudini malsane: l'idea di comparire in rete senza la fantastica armatura di una entità sinonimica, vanificando così la protezione del contesto, distribuendo le nostre note senza discrimine a nonni, amici, colleghi, sconosciuti o individui che un tempo ci erano più noti, a prescindere da cosa queste contenessero, e soprattutto, derubandoci della cronologia — l'elemento che con più semplicità poteva restituire un senso a un succedersi di eventi e correlati feedback destinato a divenire sempre più titanico — a favore di un'ottimizzazione algoritmica che, se sulle prime era motivata dal recuperare l'investimento, è nel tempo diventata un gioco letale che ha distrutto poteri, vite, attenzioni, informazioni e occupazioni, e che quando annuncia di starci premendo di nuovo la suola dell'anfibio sulla guancia che anatomicamente non può star già toccando terra, non si preoccupa neanche più di chiederci scusa.
dunque anche dai social mi sono tenuto a distanza, conservando il segnaposto per non avere l'impressione di essere completamente scomparso, ma in situazione di acuzie ho compreso con intrascurabile nitidezza quanto poco fosse auspicabile l'idea di trovarsi in un contesto dove in tanti davano del loro peggio perché sembravano aver smarrito qualsivoglia cognizione dei passi della danza, e che comunque, a un dato punto dell'esercizio, qualsiasi cosa ti trovi a fissare per troppo tempo non può fare altro che apparirti un tunnel.
nei primi mesi del 2017, a seguito di una incontrovertibile e incresciosa diagnosi ricevuta in circostanze anomale sul finire dell'anno precedente e a corollario della terapia che cercava d'arginarla, ho dovuto rapidamente dire addio alla stringa interminabile di lavori manuali che aveva contraddistinto, vivacizzato e caratterizzato il mio transito su questa roccia. l'evento non è stato affatto pirotecnico, e mi ha posto davanti all'enigma di come guadagnarmi da vivere con affidabilità, dal nulla, ritrovandomi d'improvviso fuori mercato per età in primis, e per una disposizione circadiana che andava rapidamente disgregandosi, ammaliata dall'abisso di pena scatenato dal trauma subito, e alla quale mi riusciva di fare fronte solo grazie ai venti d'alta quota del valhalla, quello strategico occhio di molten di Pazienziana memoria che è spesso l'ultima risorsa di chi non ne possiede alcuna, pur anche necessitandone disperatamente, sulla quale magari tornerò in futuro.
per lungo tempo ho così sottotitolato in italiano serie televisive, documentari e affini, togliendomi più di qualche soddisfazione semantica e smarrendomi gradualmente nella fantasmagoria di detective, domestiche, anatomopatologi e narcotrafficanti, cervella di presidenti spruzzate sui sedili delle cabrio e libri mastri d'emigrati nelle Americhe alla ricerca d'oro e affetti, finché un giorno, grazie alla gentilezza di un amico e alla fiducia accordatami da una persona che ancora non conoscevo, ho iniziato a tradurre romanzi, aggiungendo al combustibile di quell'incendio i comburenti di torride novellette sentimentali, di vicende tanto accuratamente storiche quanto i lungometraggi di Cecil B. DeMille, di saggi troppo o poco e mal documentati, di thriller che svelavano l'assassino già alla prima pagina e scene di sesso che, tanto emergeva evidente la sovrastruttura ericksoniana ricalcata dal porno in streaming e veicolata nello scarabeo che chi le aveva scritte teneva in bella vista sull'altare della scrivania, non avrebbero sfigurato nell'ambito della cronaca sportiva o della sterile manualistica d'ingegneria anni sessanta.
tradurre è una occupazione meravigliosa. la lingua che ti sei andato stipando in testa nei decenni finisce per tornare utile a farti evadere cloache d'intoppi soporiferi e sintagmi incresciosi semplicemente congegnando un'alternativa. dipende molto, quasi tutto, dal testo originale; eppure per fare un lavoro ancorché discreto il primo passo utile è sforzarti di dimenticarlo: il libro che verrà poi letto sarà stato scritto dalla tua penna, ogni singola parola, ed è sulla groppa di quei lemmi che s'accalca il peso delle responsabilità del caso, dalla leggibilità alla comprensibilità, all'auspicabile sgravio degli animi che a quelle pagine faranno ricorso. dal terreno di tale operare emergono evidenti infiorescenze: il .doc di 240 pagine che hai provato a iniziare cento volte in vita tua, affidandovi d'uopo corone di personaggi più o meno esasperati condannati a vicende dalla plausibilità dubbia e che hai finito per abbandonare di volta in volta a pagina 32, 78 o 111 colto da chissà che crisi, oggi lo devi consegnare a fine mese, senza se, ma o comunque, senza guardare languido fuori dalla finestra all'orizzonte per cercare di capire dove sia andata a cacciarsi la musa, o prenderti una pausa letale e darti un tono dicendo in giro che hai il blocco proprio al tuo mestiere. sui congegni che tengono in moto sinapsi cortocircuitate da epoche immemori si va a spalmare il tepido e oleoso lubrificante di una consapevolezza che mano a mano diventa sempre più innegabile: qualsiasi risultato è figlio di tempo e completa attenzione e non c'è altro modo di venirne a capo.
e il retrogusto più amaro è comprendere come tutte le ore dedicate negli anni a sventrare pesci, sfornare pizze, fotografare modelle, percorrere corridoi d'edifici deserti nella notte per sorvegliarli con tanto caffè in cuore da farti allucinare mostri nel punto cieco dello sguardo, consegnare pane col furgone all'alba, posare nudo per le classi di studenti, domare macchinari nelle legatorie e controingegnerizzare gli assetti psichici dei colleghi ostili, avresti potuto dedicarle ad andare oltre, a pagina 33, 79 e 112 e poi via in volata, come se i semafori del domani li avessero finalmente sostituiti con rotonde, a scrivere quel fine, quella serie di fine che in tanti anni a crederla miraggio non trovi neanche più la sequenza di spasmi muscolari che la traduce in caratteri sullo schermo. e uno dei pochi scaffali delle librerie che hanno colonizzato le pareti, anzi che riempirlo partendo da il palazzo dei sogni perduti e proseguirlo inseguendo gli ingaggi, avrebbe trovato il suo incipit nell'urania de l'amore nei piccoli dei primati e poi via, altrove, verso chissà che altri sgravi, fandonie, orpelli e scrigni colmi di pitoni, verso chissà che altre cogitazioni.
ma che scopo assolve raccontare tutto questo?
al pari di altri impieghi non salariati, tradurre assoggetta l'operatore a frequenti assenze di continuità nel flusso degli ingaggi. per settimane o mesi non alzi il muso dalla tastiera e diventa difficile serbare in testa un pensiero che puoi dire solo tuo, e poi finisci, rileggi, correggi, consegni a chi rivede e ti siedi ad attendere il drammatico lasso che ti separa dal compenso, e sfilano giornate interminabili dove la casella di posta tace e la mente, o il cardellino dell'animo nella gabbietta del corpo che dir si voglia, prende agitata a percuotere le sbarre alla ricerca di un ritmo che possa riuscire a sospingere quei grumi d'ore.
e poi a un punto gira una brutta influenza che si fa forte di una inconoscibilità che nei mesi appare sempre più indirimibile, ci chiude la bocca, aggrava il respiro, ci spinge lontano e ci endovena il sospetto, lo sconforto, a tratti ci stronca e via dicendo e la gente intorno esce confusa ma prode in balcone a cantare Mameli, come se l’ente che ci ha lasciati fuor d’assist coi figli piccoli, i lavori persi, gli anziani invalidi, le malattie incurabili e tante di quelle bollette inevase da farci carta da parati potesse veramente uscire dalla cabina telefonica cambiato d’abito e pronto a risolvere in un lampo tutti i problemi che erano comunque lì anche il giorno prima e altri che storicamente continuavano a sfuggirci non solo perché siamo forti e guitti e un popolo di santi, ma perché siamo ignoranti, e gli scenari apocalittici, usciti dal cinema, si sono cambiati d’abito anche loro, e da lontano, con la mascherina, in fila davanti al forno che guardano il telefono e ascoltano i vocali, neanche li riconosci più.
senza ingaggi e chiuso in casa le giornate si erano fatte più lunghe e più libere del solito. a un certo punto ho compreso che volevo restituirmi il lusso di avere un luogo dove pubblicare, dopo anni di blocchi, quaderni, taccuini, file di testo e ruminazioni intracraniali. volevo riaprire un blog: ovviavo i giorni lavorando a un corpus di traduzioni non commissionate di antichi testi sacri tibetani, e su quelle pagine e tramite quel protocollo volevo conservare un sussidiario, nonché distribuire le stesse gratuitamente, per rendere omaggio a un nulla che appariva sempre più vorace. e dunque ho affittato spazio e processore su un server, dopo anni ho rifatto girare Wordpress e ho cercato di capire in fretta cosa fosse cambiato nel frattempo, ho mappato un nome dominio e il 29 aprile del 2020 andava in onda quello che, come avessi ancora quindici anni, avevo battezzato Spada Magnetica, che nell’introduzione definivo una raccolta di ideazioni frammentarie, saggistica personale non correlata e traduzioni in italiano di materiale poco o mai comparso in questa lingua, riportata in forma prevalentemente epistolare.
non era certo il più allettante degli intrattenimenti: i testi tradotti erano già ostici e lontani in partenza, in più introdotti e commentati da convoluti scorci autobiografici e soffocati da quintalate di note e rimandi che una propensione al puntiglio e l’impossibilità di lasciare punti irrisolti mi facevano apparire necessarie. non credo di essere riuscito a condurre a parte di quei testi più di tre o quattro paia di occhi umani; altri pezzi meno fortunati non sono stati letti altro che da chi li ha scritti, e hanno vissuto la loro breve stagione sulla rete nello sfasamento percettivo che li dimorava nella riservatezza dei diari da un lato e dall’altro, stando al libro di bordo del macchinario che li serviva al mondo, li vedeva funestati e falcidiati da sondanti incursioni robotiche e maldestri tentativi automatizzati di espugnazione che, se sulle prime mi avevano quantomeno inquietato, ho poi compreso naturalmente incastonati, in questo giorno ed epoca, a una connotazione della rete e dei suoi protocolli che tutti gli esperti di sicurezza contemporanei ci dipingono come territorio ostile.
in uno scorato articolo comparso sul Globe and Mail un paio di anni fa, Michael Harris, giornalista canadese autore di due saggi che discutono da angolazioni diverse l’impatto della tecnologia sull’esistere, riflettendo sulla sovvenuta incapacità di affrontar tomi come fosse il secolo scorso, riassume opere e teorie di Alison Gopnick e Maryanne Wolf, due accademiche psicologhe ed educatrici statunitensi che dedicano la loro carriera a comprendere l’apprendimento in tenera età e a risolverne i potenziali disturbi, per ricordarci senza troppi giri di parole che il cervello umano, per connotazione e struttura, non possedeva da principio la facoltà di leggere, e che per riuscirci ha ricavato la medesima adattando e dirottando elementi della corteccia visiva evolutisi asservendo altri scopi; il nostro stato predefinito è, semmai, quello della distrazione: lo sguardo si sposta e guizza e l’attenzione vacilla e si riassetta alla ricerca del sempre più fantomatico predatore che potrebbe potenzialmente divorarci e porre fine, infine, a ognuna delle nostre pene. la facoltà di poter leggere accompagna la nostra specie da epoche immemori, ma un alfabetismo ragionevolmente diffuso e affidabile ha insediato i lidi della nostra cultura per solo poco più di un secolo, e l’esperienza di perdersi in un testo, che pure è parsa vitale e preziosa a una cospicua fetta della mia generazione, è stata a ritroso poco comune, sconosciuta e persino inaudita per le precedenti, e probabilmente, al pari di altri fenomeni che oggi ci appaiono inespugnabili solo in virtù della loro maniacale adozione e succedanea diffusione — le borse valori, il lavoro salariato, lo stato assistenziale, i selfie, i silo che li incitano, le criptovalute, la disponibilità di intrattenimento che copre più giornate di quante ne abbiamo da vivere e i movimenti studenteschi, tanto per menzionarne alcuni — è destinato rapidamente a prendere un’altra forma, la sola connotazione della quale e successiva corollaria integrazione potrà farci capire se stiamo parlando o meno di scomparsa.
sulla base di queste considerazioni, all’inizio del 2021, ho deciso di rimuovere anche il contenuto di Spada Magnetica dalla rete, ma non volevo farlo nello stesso silenzio di tomba in cui lo avevo compilato. mi sono messo a rileggere tutto, a capire quello che mi aveva motivato, e nel contempo a stilare, a commiato, un indice dei contributi da sostituire ai testi scomparsi, che già dopo poche righe aveva assunto una connotazione preoccupantemente Borgesiana, e che mi ha riportato in mente Irma Vep, quel clamoroso lungometraggio di Assayas di una venticinquina di anni fa, nel quale si racconta la storia di un regista attempato che tentando di fare il remake di un classico del cinema muto si smarrisce, e resta chiuso settimane da solo in sala da montaggio a prendere di fondo a craniate il muro mentre la troupe e i produttori vengono fagocitati dall’angoscia, ed è fantastico vedere quanto tante cose che esistono solo nella nostra testa entrino volentieri in risonanza con altre che pure solo lì stanno, magari con qualche eco nella, o tenue legame alla, vita degli altri, e che alla fine l’apparente conforto di quando ci sentiamo rapiti o anche solo remotamente motivati dalla musa potrebbe non essere altro che l’imbottitura alle pareti della cella che ci contiene, o il fluttuo amniotico del liquido ove il cervello, segretamente e sottovoce, sta galleggiando isolato nella risacca contenuta da un’ampolla, sullo scaffale di un laboratorio sotterraneo abbandonato da epoche tanto immemori quante ci sembra d’aver trascorso sulla terra. un poco mi sentivo in colpa, perché stavo di nuovo abbandonando un’aiuola alle erbacce. guardavo dietro e vedevo solo giungla. e sì, l’estate precedente era stata difficile: la vita aveva di nuovo affilato le lame, e mentre cercavo di parare le sferzate mi arrivavano sempre più ingaggi, sul panno già marginalmente liso del traduttore avevo dovuto comprendere come cucirvi sopra quello sin allora inedito dello scrittore fantasma mentre bevevo autostrade, valichi di montagna, piante bruciate dall’arsura e miseria, sudore, lacrime, cinghiali, lepri, aquile e linci, urla di rapaci nella notte e in ultimo cavalli.
avevo ogni scusa sotto il cielo per gettare la spugna, ma volevo poter restare in armonia e armistizio con me stesso il mattino dopo averlo fatto, ed è stato soltanto scrivendo quell’ultimo commiato che a un punto ho capito:
e forse era chiaro già all’epoca che l’unico modo di riprendere le redini era lasciare al brado impeto dei cavalli facoltà di direzione e velocità di fuga, e restare quindi con lo stupore e la meraviglia dei bimbi ignari ad attendere quali scenari potranno a seguito sorprenderci lo sguardo: sul piccolo corpus da ventimila parole stendo dunque transitoriamente un velo, senza sapere se servirà solo a far da freno alla polvere o se come terra e mota diventerà rifugio e grembo per una crescita. in vita ho cancellato tanto ma, rincoglionito al traguardo del mezzo secolo che auspicabilmente andrò a marcare all’antipode di questo nuovo anno, comprendo di averlo fatto perché è solo sulla pagina bianca che ogni potenziale, possibile o implausibile che appaia, non trova alcun ostacolo a manifestarsi.
e quello che ho fatto, nei giorni successivi a queste riflessioni, è stato sedermi a guardarla, quella pagina bianca, e a capire come potevo riempirla, e come riempirci altre paia d’occhi. forse ha ragione il giornalista canadese, e l’essere rimasti anni incollati ai libri era solo un trucco, e forse proprio per questo, come specie, abbiamo accolto a braccia aperte il convivere a congegni che stanno lì per progetto a distruggere la nostra attenzione per compostarla in profitto e dirottamento psichico. forse la temuta apocalisse è già alle nostre spalle e non ce ne rendiamo conto, perché ormai la sindrome da stress post-traumatico, di questa società, è diventata mattone e cemento; forse siamo nella media res di un film di zombi e gli spasmi sempre più fugaci della nostra percezione servono soltanto a tenerci in vita qualche altro prezioso istante prima che la catena alimentare ci scomponga in proteine e feci; forse aveva ragione il Buddha e tutto quello che ci circonda è mera, bieca illusione, e quando torneremo sulla scena del delitto sarà in circostanze più propizie, e riusciremo a toglierci prima del tempo l’uncino dalla bocca e a percepire l’oceano sulla pelle e nelle branchie; ma esiste anche la possibilità che forse l’unico mondo che è già finito è solo quello che non riusciamo più a immaginare.
per continuare a immaginarlo non serve essere possessi di un cervello vasto galassie: quello che portiamo a spasso nella calotta cranica basta, e occorre soltanto, all’uopo, ridirigerlo e focalizzarlo, dopo aver tenuto conto delle innumerevoli potenziali falle percettive che sovente lo abbindolano. nel terzo volume di una trilogia ancora intradotta in italiano, l’autore Agustín Fernández Mallo definisce l’induzione imperfetta come un meccanismo mentale che permette di dedurre una legge universale da uno o più casi particolari e specifici. è un tipo di procedimento che di solito sconfessa qualsivoglia teoria o dimostrazione scientifica, eppure nel nostro quotidiano vi ricorriamo di continuo, e anzi: più i casi particolari capitombolano sotto le luci della ribalta della nostra attenzione in quei momenti che ci sorprendono psichicamente indifesi che ormai compongono quasi per intero il nostro vissuto, e più ci convinciamo che questi pochi dati bastino a comprendere l’intero dello sfondo e del contesto. all’induzione imperfetta ricorriamo quando lasciamo che un partito preso in adolescenza continui a informare le nostre decisioni nonostante la veneranda, e non più adolescente, età raggiunta; vi ricorriamo quando pensiamo che riportare una frase letta per caso sia tutto quello che basti dire quel giorno; vi ricorriamo quando pensiamo che dopo tornerà tutto come prima, e anzi, non ne vediamo l’ora, e ci concediamo pure il lusso di albergare malinconia al riguardo, quando è forse accoratamente evidente che in quel dopo ci siamo già da un pezzo, e forse sarebbe il caso di comprendere quali aggiustamenti a medio e lungo termine siano propizi o quantomeno necessari, visto che quelli a breve termine che abbiamo raffazzonato in ogni dove — pulpiti governativi e infrastrutture assistenziali quanto strade, piazze, agorà e abitazioni private — palesemente non stanno funzionando; vi ricorriamo tutte le volte che tentiamo di applicare l’esperienza altrui alla nostra, pensando che a differenza di immissioni l’esito sarà comunque garantito immutato, o quando lasciamo che la nostra mediazione sociale sia informata dall’appartenenza a una tribù solo perché qualcosa, in quella altrettanto fantomatica che ci oppone, per motivi ignoti non ci va a genio. in ultimo, vi sto ricorrendo anche io, quando indirizzo tale prima comunicazione solo a gente che conosco di persona, pensando che questo unico elemento possa garantire un anche vago livello di interesse a voler leggere quello che ho da dire.
e non so nemmeno se sia possibile immaginarlo un altro mondo, e, ancor più ostico, se sia possibile congiurarlo in esistenza. non ho nessun asso nella manica, e per essermi alzato dal tavolo tanti anni fa, c’è la possibilità che le regole del gioco le abbia dimenticate, o che siano cambiate del tutto mentre rivolgevo la mia attenzione a sopravvivere. non lo so, non ne ho idea, ma sto cercando di capirlo e ho deciso di condividere, un trancio alla volta e con tutta la confusione che mi divora il cranio, la mia ricerca. magari stai cercando di capirlo anche tu, come si esce da questo labirinto, e un pezzo di strada possiamo farlo assieme. per ora, se hai raggiunto il traguardo di questa riga, ti ringrazio del tuo tempo, e della tua attenzione. sono gli unici tesori che hai, e non esiste modo per descrivere la gratitudine che provo sapendo che me li hai concessi.
negli appuntamenti seguenti cercherò di togliere di scena il figuro di cui ho parlato tutto il tempo in queste righe, per limitarmi a indicare bagliori dove ne intravedo e a delirarne le possibili valenze e implicazioni, per comprendere se sia possibile applicarle al nostro sempre più inospitale e bieco quotidiano. per chiudere, però, offro del figuro solo un altro lampo: nella prima metà dei vent’anni mi ero adoperato a comporre degli haiku, fugaci componimenti poetici donati alle civiltà umane dalla letteratura giapponese, la struttura dei quali, distillata dalle battute d’apertura di tipologie poetiche più antiche, concede l’uso di sole diciassette sillabe per portarli a termine. in una lingua occidentale e peggio ancora romanza, l’operazione di comporne è spesso impossibile: il mio nome conta sette sillabe, e con le restanti faccio appena in tempo a scriverci povero stronzo illuso oppure i suoi due cani lieti, ma quello che caratterizza l’haiku è il salto, che in giapponese viene formalizzato con il kireji, termine che indica una parola tagliente come una katana e che descrive una particola mono o polisillabica che, ad esempio, è in grado di elevare, spezzando e ribaltando, una nitida e succinta descrizione ambientale oltre lo steccato mentale dei lemmi che la rievocano, recidendo di netto quello che succede tra le righe e facendo emergere due apparenti flussi di pensiero che sembrano sì distinti, ma sotto sotto erano già impliciti nella scena, nell’occhio che l’andava osservando e nel tremore della mano che la ricomponeva in inchiostro a calligrammi col pennello sulla carta. non c’è nulla di simile nei nostri vocabolari: tanto più che il salto di uno dei componimenti più noti di Ungaretti sta nel titolo, o comunque è tra quello e il componimento sottostante che andiamo a precipitare. a salvarmi perlomeno dalle diciassette sillabe era però, come ricordai a un punto, intervenuto anni prima un morto, Jack Kerouac, che nella trascrizione di un’intervista al Paris Review riportata in un volume che ne raccoglieva a suoi contemporanei e compari sbirciato in piedi in una libreria quando dimoravo a Londra, avevo letto proporre una possibile via occidentale all’haiku, spiegando che «[…] in giapponese devi comprimere tutto in diciassette sillabe. Non dobbiamo farlo in americano, o in inglese, perché non abbiamo le stesse cagate sillabiche che ha la vostra lingua giapponese», e prima ancora, quando l’intervistatore introduceva l’argomento, Kerouac aveva risposto: «Haiku? Vuoi sentire un haiku? Guarda che devi comprimere in tre righe brevi una storia grandiosa», e aveva ragione: bastava studiare, rispettare la forma, congegnare il meccanismo, pensare ed eseguirsi distillati, senza il minimo spreco, per beneficiare d’un altro attrezzo nella sporta. l’antropologia sembra indicarci che è il contesto a determinare l’utensile, e l’imperatore non mi avrebbe comunque invitato a recitare a corte, anche se non avessi usato altro che le sillabe sul pallottoliere. e così per qualche tempo ho scritto haiku, e per farlo me ne andavo in giro osservando quello che mi circondava, cercando prima di capire dove si operasse il salto, e mano a mano comprendendo che non erano soltanto due i flussi di pensiero possibili, ma per ogni dato istante ne passavano almeno tre o otto, poi, in ripida escalation, centoquarantamila o sette milioni, fino ad andarsi a schiantare, o a levarsi maestosamente e con ferocia in volo come i draghi, all’incalcolabilità di infiniti, al punto dove non c’era altro che salto, e a scagliarmi, o levarmi aulico, verso quello che fu il livello successivo dell’avventura, del quale ora sarebbe quantomeno fuori luogo fare cenno più esteso. quello che conta è che di haiku, infine, non ne ho poi scritti tantissimi: qualcuno lo ricordo ancora a memoria, la maggior parte è andata confusa, ove non macerata, in un archivio che da decenni ha smarrito i suoi confini e che dimora da allora nella condizione sempre più fascinosa del suo superpotenziale. quelli che ho scritto, sospetto, non erano granché: magari saltavo pure in giro, ma ne ricavavo soltanto lividi.
qualche pomeriggio fa, mentre tra cesoiate e tuffi carpiati Voci dal Vortice prendeva forma nella mia testa e mi affaccendavo alla ricerca di un tomo altrui disperso tra le librerie — operazione tanto perigliosa quanto il lasso che si opta di dedicargli — informato dall’improvvisa voglia di consultarlo e impedito allo scopo dal marasma percettivo di cui sopra, ho visto scivolare via dal covo anaerobico tra due volumi un foglio a righe ripiegato a metà, scritto in quella calligrafia impacciata, disegnata e stampatellosa che per anni ha allegorizzato un imbarazzo di fondo relato al fatto di vomitare il cervello sulla carta e la voglia recondita di tenere il fatto nascosto tra le foglie del mondo. la data segnata in alto a destra me lo diceva redatto il giorno del mio ventiquattresimo compleanno, non solo un giorno diverso da quello in corso, ma un altro mese, anno e decennio, persino un altro secolo. vi erano stati scritti di prima mano, l’unica che io abbia mai usato, dei vivaci e incerti componimenti poetici, una brevissima prosa e poi, a margine e sul finire, anche uno di quegli haiku. con mia sorpresa, ricordavo non solo nitidamente quella pagina, ma verbatim quasi tutto il suo contenuto e le circostanze della sua stesura: già all’epoca la superstizione del calendario mi aveva condotto, in occasione di un qualche ricorrere, a tirare somme, anche se ero ancora un bambino, e non serbavo idea alcuna del tempo e del suo scrigno e ancora meno dei tesori e delle pene che vi avrei in seguito rinvenuto. dopo aver farneticato in distici elegiaci di sonno mancato e lemuri e cinghiali onirici, di Ganesh enormi all’orizzonte dal balcone di casa dei miei e dell’arrivo auspicato delle astronavi, l’haiku era poi andato a concludere la cronaca di quel meriggio stringando:
ho perso ogni treno
ma ora siedo nell’erbala strada davanti piena di luce
povero piccino, ho pensato, quasi commosso. ma poi ho capito: per tanta di quella luce, per corollario abbaglio, l’intero orizzonte dovrà essergli sembrato una gigantesca pagina bianca.
ci sentiamo presto. passo e chiudo.
NEL PROSSIMO EPISODIO: